Oggi 8 marzo, Giornata internazionale dei Diritti della Donna pubblichiamo un racconto autobiografico di Marta Pisani
Negli anni ’50 l’Italia, appena uscita dal conflitto mondiale, si ritrova malconcia ma con tanta voglia di ricominciare. Il lavoro non manca per coloro che vogliono rimboccarsi le maniche, specialmente se disposti ad affrontare la lontananza dalla famiglia per rimettersi in sesto.
Nel mio paese, Molfetta, affacciato sul mare Adriatico, da tempi immemorabili, gli uomini si imbarcano sulle grandi navi che attraverso le rotte del Mediterraneo e l’Atlantico giungono ai porti commerciali di Rotterdam, Anversa, Amburgo.
E’ questa la soluzione migliore per ridare alle famiglie quella tranquillità economica perduta negli anni della guerra.
L’alternativa è l’emigrazione. Partono uomini con le valigie cariche di speranze, alla ricerca di “fortuna” in America, Argentina, Venezuela, luoghi ove si parlano lingue incomprensibili ed il futuro è una scommessa. Tutti alla ricerca di un riscatto ed un’opportunità di benessere, a fronte di lavori umilianti che mai avrebbero svolto nel proprio paese e condizioni di vita precari. Ogni genere di sacrificio, pur di sostenere le loro famiglie, nella speranza di ricongiungersi quanto prima.
Si calcola che nel decennio ’50 – ’60 siano partiti 5 mila uomini dalla mia città.
E le donne rimaste a casa come hanno affrontato la condizionedi capofamiglia?
Non hanno avuto bisogno di etichette, non hanno aspettato il movimento femminista degli anni ’70, nè riforme emancipatorie per dimostrare la propria autodeterminazione perchè il matriarcato è stata una caratteristica costante della nostra società.
Le donne, da sempre sole, si sono prese cura dei figli, hanno amministrato oculatamente il denaro, hanno saputo investirlo in beni immobili e duraturi, terreni, la prima casa ed eventualmente un’altra come rendita per la “vecchiaia”.
Con disinvoltura si recano in banca, seppur prive di titoli di studio, si districano ottimamente tra le molteplici forme di investimento, scelgono quelle più vantaggiose, contattano notai, avvocati, stipulano contratti ma non li sottoscrivono a proprio nome.
Già! Perché si fermano ad un passo dalla definizione?
E l’uomo, il maschio, come ha accettato tale intraprendenza?
Forse l’uomo molfettese ricopre un ruolo marginale rispetto alla donna? Nient’affatto!
L’uomo è sempre colui che porta i pantaloni in casa.
Il matriarcato è strisciante, si insinua tra le pareti domestiche, non viene sbandierato. Nell’intimità familiare la figura femminile emerge in tutta la sua abilità e risolutezza, per tornare a stare un passo indietro in pubblico; nell’ombra, padrona. Insomma, la coppia è fedele al vecchio adagio “il padrone sono io ma chi comanda è mia moglie”.
Ne sono stata personalmente testimone perché io sono la figlia e mia madre, la signora Lucrezia, è stata la moglie di un “imbarcato”. Con questo termine nel mio paese viene etichettata una vera e propria categoria lavorativa: quelli che, in ruoli diversificati, svolgono mansioni sulle grandi navi intercontinentali, dal comandante al nostromo, dall’ufficiale al semplice marinaio.
Mio padre è restato anche 14 mesi di fila lontano da casa, quando il suo lavoro lo ha portato sulle petroliere che dal Golfo Persico hanno attraversato gli oceani verso le Americhe e il Nord Europa.
E’ mia madre a prendersi cura della famiglia con doppia responsabilità poiché deve render conto al marito degli accadimenti talvolta drammatici che non sono certo mancati.
Una mia sorella, la “prima Marta”, a soli due anni, si ammala di meningite, non prontamente diagnosticata, e muore.
Io stessa, la “seconda Marta”, all’età di 14 anni, per un’errata diagnosi, rischio la vita e vengo salvata in extremis. Lucrezia è disperata non solo per il pericolo di perdere una figlia per la seconda volta, ma perchè dovrebbe darne conto al marito.
Per fortuna, questa volta, tutto va per il meglio.
Quarta di otto figli, la sua istruzione si ferma alla terza elementare perchè deve accudire ai fratelli più piccoli. Benchè sbagli i congiuntivi e non conosce la poetica di Dante, il romanzo di Manzoni o la scienza di Newton, sorveglia attentamente il precorso scolastico dei quattro figli con l’obiettivo di dare un’istruzione completa, foriera di migliore prospettiva di vita.
La signora Lucrezia gode di grande popolarità nel quartiere, la nostra casa è un porto di mare, perchè dispensa consigli alle donne della sua stessa condizione, specie nella gestione economica e nell’amministrazione della rendita mensile che giunge da lontano.
Ha il culto del risparmio e del riciclo, ogni cappotto, ogni vestito passa da una sorella all’altra, con un colletto diverso, una passamaneria, un fiocchetto a mascherarne l’età. Non è importante comprare molto ma ciò che è duraturo nel tempo. Provvede con occulatezza alle necessità, sorvola sul superfluo perché, ama ripetere, “del domani non si sa mai!”.
Sa tutto sui depositi bancari e già allora sfrutta la concorrenza tra i vari istituti di credito. Quando ha accumulato un bel gruzzoletto, lo investe nel “mattone”, bene rifugio al riparo da pericoli di inflazione.
Una donna energica, volitiva, sicura di sé, che sa gestire la vita familiare con capacità, sagacia, accortezza. Oggi la si definirebbe intraprendente, allora la si descriveva devota alla famiglia, fedele al marito lontano di cui salvaguarda la figura di capofamiglia e il tradizionale decisionismo maschile.
In questo delicato equilibrio c’è una sensibilità tutta femminile.
Mia madre, fiutato un affare, non se lo lascia sfuggire, valuta, mercanteggia, conclude, poi, alla stipula del contratto, convince la controparte all’attesa fino al ritorno di mio padre, il quale, senza che se ne renda conto, viene guidato a giudicare, ponderare, decidere su ….quello che è stato già deciso.
A firmare dal notaio ci va l’uomo cui viene cointestata la proprietà perchè, se ha “fatto” i soldi, la donna li ha giudiziosamente gestiti. Così viene salvaguardato l’onore del maschio e il rispetto della donna..
In casa il ruolo di pater familias è tenuto in gran conto: lo si aspetta perché sia presente in occasione della Prima Comunione, della Cresima dei figli, della prima visita del fidanzato, in tutti i momenti importanti della vita familiare.
Mia madre con grande maestria ha saputo rendere la figura paterna essenziale. Era naturale pensare a lui come ad una figura accessoria che provvedeva esclusivamente all’aspetto economico. Al contrario il papà ci appariva come colui che, con il suo modello di vita, sapeva comunicare valori quali il senso del dovere, l’onestà, la rettitudine, la lealtà, la dedizione alla famiglia, la forza degli affetti duraturi.
I rapporti tra padre e figli non sono stati sempre idilliaci, specie nell’adolescenza, l’”età del malessere”, perché mentre la mamma, seppur con difficoltà, si adegua al mutar dei costumi, il papà, colpa l’assenza, rimane ancorato ad una mentalità tutta tradizionale. E qui ella si fa mediatrice tra un passato che velocemente muore, travolto dalla televisione e dai nuovi orizzonti aperti sul mondo ed un presente foriero di trasformazioni.
E quindi? Si potrebbe definire mia madre e con lei la quasi totalità delle donne del nostro paese antesignane del femminismo ancor prima che questo fenomeno dilaghi? Penso proprio di sì. Non solo!
Avevano compreso già allora che la forma migliore di questo movimento non è quella dura, aggressiva, del detto “il corpo è mio e lo gestisco io”, ma quella moderata che non tradisce del tutto i caratteri della femminilità, la differenziazione dei ruoli nell’ambito della famiglia.
Mi piace concludere con le parole di Luigi Barzini. “Gli uomini dirigono il paese ma le donne dirigono gli uomini, l’Italia è in realtà un cripto-matriarcato”.